Don Antonio Rossi – Un servo della parola

«Parimenti il santo Concilio esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli […] ad apprendere ‘la sublime scienza di Gesù Cristo’ (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture. ‘L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo’. Si accostino essi volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia, che è impregnata di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi, che con l’approvazione e a cura dei pastori della Chiesa, lodevolmente oggi si diffondono ovunque. Si ricordino però che la lettura della sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché si stabilisca il dialogo tra Dio e l’uomo; poiché ‘quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo, quando leggiamo gli oracoli divini’».

Questo testo solenne della Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II offre la chiave interpretativa giusta per cogliere il significato, preciso e profondo, del servizio reso alla Sacra Scrittura da Antonio Rossi nelle comunità ecclesiali di Tortora, prima da laico consacrato e poi da Presbitero e Parroco. Egli ha abbracciato appassionatamente la convinzione antica e profonda della Chiesa che la conoscenza e l’amore del Signore Gesù si ottengono e consolidano ‘abitando’ nella sua Parola, vale a dire mediante la familiarità, l’intimità e la consuetudine con la Bibbia. Così egli ha potuto essere per molti una fonte zampillante, attraverso la quale attingere l’acqua viva della vita (cfr. Gv 4, 10ss; Es 17 e 1Cor 10,4).  Tra questi molti, anch’io. Vivendo in un piccolo paese della Calabria con un profilo di religiosità e di fede ben delineato, chiaro, e tuttavia privo ancora dei tratti più espressivi del rinnovamento auspicato e indicato dal Vaticano II, ricevetti il dono inatteso e grande di ‘prendere in mano’ la Bibbia. 44 anni fa, all’età di 15 anni, non era frequente possedere una Bibbia su uno scaffale, ancor meno tenerla fra le mani per leggerla e meditarla, sia da solo sia in gruppo. Non lo è neppure oggi, purtroppo, e questo contribuisce a farmi riconoscere e apprezzare maggiormente la novità del dono di allora, di cui Antonio fu il mediatore determinante.  

Frequentando le riunioni, nelle quali ci rendeva partecipi dei frutti della sua preghiera più che dei suoi studi, non solo precisavo il mio rapporto con Dio ma, sorpreso dalla ricchezza e dalla comprensione e valutazione delle realtà personali e comunitarie che egli sapeva trarre da quello scrigno millenario, per molti secoli aperto solo indirettamente ai fedeli laici, ero incoraggiato e aiutato, senza rendermene conto, a realizzare per me il desiderio espresso nel testo citato del Concilio.  

Il fatto che la familiarità con la Scrittura procedesse di pari passo con la scoperta e la pratica della Liturgia delle Ore è stato molto significativo per la mia vita, ed esprimeva altresì con esattezza la natura spirituale e sapienziale degli incontri che Antonio animava. Nelle nostre riunioni regolari con la Bibbia si stabiliva e si coltivava il dialogo tra Dio e l’uomo di cui parla la Dei Verbum. Non studiavamo la Bibbia (cosa buona e necessaria, certo), non riflettevamo soltanto su quanto avevamo letto nella Bibbia; di più, ascoltavamo Dio e gli parlavamo. Pregavamo. Spirito e lettera del Vaticano II si propagavano in una stanza dell’‘Asilo’ di un piccolo borgo della Calabria, e noi ne eravamo riempiti.

Durante tali incontri Dio poneva in me i presupposti interiori perché potessi conoscere la sua volontà a mio riguardo e accoglierla; preparava il terreno dove la mia vocazione potesse germogliare e crescere. Antonio collaborava con lui a dissodarlo. Vi ha gettato anche il seme, come ricorderò brevemente raccontando il primo dei tre eventi determinanti della mia vita, di cui conservo un appunto datato 15 agosto 1977. Eravamo riuniti a casa di una coppia di sposi per preparaci comunitariamente con la Sacra Scrittura al battesimo del loro primo figlio. Per la nostra riflessione e preghiera Antonio propose il brano in cui il Signore chiede che ogni primogenito gli sia consacrato (Es 13,1ss). Nel commento ci disse che il primogenito da offrire a Dio rappresentava il nostro desiderio più intenso, anche legittimo, il bene presente o futuro più grande che ci stesse a cuore, e ci invitò a chiederci davanti al Signore quale fosse, per poterglielo donare completamente. Quello stesso giorno compresi la forma di vita in cui si sarebbe dovuta concretizzare la mia vocazione battesimale. Non la compresi da me, tanto meno me la suggerì qualcuno dei presenti. In me era accaduto proprio quanto dice sant’Agostino, parlando del ministero di chi annuncia la Parola: «Il suono delle nostre parole percuote le orecchie, ma il vero maestro sta dentro. Non crediate di poter apprendere qualcosa da un uomo. Noi possiamo esortare con lo strepito della voce ma se dentro non v’è chi insegna, inutile diviene il nostro strepito. Ne volete una prova, o miei fratelli? Ebbene, non è forse vero che tutti avete udito questa mia predica? Quanti saranno quelli che usciranno di qui senza aver nulla appreso? Per quel che mi compete, io ho parlato a tutti; ma coloro dentro i quali non parla quell’unzione, quelli che lo Spirito non istruisce internamente, se ne vanno via senza aver nulla appreso. L’ammaestramento esterno è soltanto un ammonimento, un aiuto. Colui che ammaestra i cuori ha la sua cattedra in cielo» (Commento alla Prima lettera di S. Giovanni, Omelia III).

Avevo ascoltato la voce di Antonio che presentava il brano e avevo accolto il suo invito, ma la Parola che mi aveva trapassato il cuore per espropriarmi del mio desiderio e presentarlo al Signore perché ne disponesse a suo piacimento non era umana.

Condivido in parte questa esperienza a sostegno della mia convinzione che Antonio è stato un servo della Parola autentico, più che un maestro; un fratello e padre nella fede che ha desiderato e saputo indirizzare i cuori all’ascolto personale di Dio.

Lo testimoniano anche queste parole che pronunciò al termine di una omelia:

«Cosa ho detto? Niente! E ho detto tutto. Bisogna che ciascuno si rifaccia alla sua esperienza. Non dovete mai pensare che qui diciamo cose e a dire cose perché bisogna dire qualcosa. Qui il Signore e lo Spirito Santo ci svelano le cose che già voi state sperimentando, se vi conservate piccoli davanti al Signore. Perché, pur essendo poveri economicamente, ma se aspirate a imitare i sapienti, i dotti, le persone importanti, se aspirate a diventare come quelli che contano, allora queste parole non vi dicono proprio niente, non suonano e non sanno di niente. Se invece pur tendendo a una vita ordinata, a una vita tranquilla, vi custodite nella semplicità, vi fermate all’essenziale, allora beati voi, “beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete, beati voi che udite ciò che altri speravano di udire,ma non l’udirono”. Sì, la beatitudine è proprio questa: conoscere il Padre at­traverso Gesù Cristo nell’ascolto dello Spirito Santo» (5 dicembre 1995, martedì della I sett. di Avvento).

Egli stesso, dunque, ci detta l’atteggiamento consono per leggere i testi delle sue omelie riportate in questa raccolta: umiltà, semplicità, desiderio di conoscere il Padre, consapevolezza che uno solo è il Maestro che agisce nell’interno.

Padre Francesco Maceri

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